mercoledì

Educazione alla critica

La vera educazione deve essere un’educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso forse è anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L’ha detto la signora maestra, l’ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l’italiano “problema”). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente. Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo “rovistarci dentro” si dice krinein, krísis, da cui deriva “critica”. La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo. Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. Al di qua o attraverso tutte le differenze possibili e immaginabili con cui la fantasia può giocare su queste esigenze, queste fondamentalmente rimangono identiche nelle mosse, anche se diverse per i connotati vari delle circostanze dell’esperienza. La nostra insistenza è sull’educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: «è vero», «non è vero», «dubito». E così, con l’aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l’uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: «Sì» oppure «No». Così facendo, prende la sua fisionomia d’uomo. Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l’ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l’ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che uno fa problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: «è vero?», è diventato uguale a dubitarne. L’identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù. Il dubbio è il termine di un’indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l’invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura. Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica - come ringrazio mio padre di avermi abituato a chiedere le ragioni di ogni cosa, quando, tutte le sere prima di addormentarsi, mi ripeteva: «Ti devi chiedere il perché. Chiediti il perché» (lui lo diceva per ben altri motivi!) -, il giovane è foglia frale lungi dal proprio ramo («Dove vai tu?», diceva Leopardi), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un’opinione pubblica generale creata dal potere reale. Noi vogliamo - e questo è il nostro scopo - liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente degli altri.

"Il rischio educativo" - Mons. Luigi Giussani